mercoledì 6 dicembre 2017

Linfomania

Stavolta fu un pezzo di pelle ad essere asportato, un neo nel dito medio del piede sinistro. L'intervento fu breve, in anestesia locale, ma per due giorni ne portai a passeggio il dolore e l'inabilità a camminare.

Ero scettica, non credevo che la biopsia potesse rivelarmi qualcosa di nuovo, di utile. Quasi volevo evitare, volevo rifiutarmi, ma la mia mente razionale, la mia curiosità e la mia deformazione professionale mi spinsero all'intervento senza esitazione.
Dovevo classificare questo “dato”, come feci tempo fa in uno studio statistico, dove analizzai le biopsie. Tutti tumori, a vari diversi stadi. Tutti pezzi di persone di cui non conoscevo nulla e che apparivano ai miei occhi soltanto come variabili “categoriche”. Chissà quante lacrime legate a quelle categorie, quanti progetti andati a monte e in fine quanta sofferenza ….

La mia mente si era preparata, come l'anno scorso, ad ogni eventualità, al punto da essermi già orientata verso un nuovo percorso che nessuno avrebbe voluto compiere, la cui destinazione rima con desolazione.

Ma anche questa volta l'esito negativo della biopsia e le parole del dottore “adesso può sorridere” mi lasciarono invece in uno stato di confusione e smarrimento.

E' incredibile come si possa provare delusione o persino infelicità per una bella notizia, soltanto perché questa si scontra con le aspettative, contro ciò a cui si era preparati.

Stavolta durò poco questa sensazione di abbandono, di sconforto di fronte all'evidente ignoranza clinica del sentimento umano, dello stato interiore, di come ci si possa sentire con l'unica certezza della malattia di cui non si soffre. E tutto il resto? Qual è la spiegazione?
Durò poco, perché tornai subito al lavoro, con la certezza della mia mansione. Tornai subito a frequentare le persone conosciute in questi mesi, con la certezza della loro amicizia o della loro simpatia.

In fondo sono le persone del luogo a farti sentire parte del luogo. L'anno scorso non avevo ancora molti legami e non avevo nessun ruolo. Giravo con mia figlia da un posto all'altro, con l'intento di esplorare la città, ancora titubante di fronte al multilinguismo incalzante.
Ed il fatto che nessuno riusciva a capire il mio malessere fisico e continuava a dirmi che non avevo nulla, mi faceva sentire ancora più straniera, più smarrita.
Mentre quest'anno tale sensazione durò giusto il tempo della visita, per poi svanire ed essere dimenticata.

“E' sicura che non ha bisogno di parlare con qualcuno per accettare questi linfonodi?”

Sì, non ho più bisogno di parlare di questa storia. Non solo accetto ciò che ho e ciò che non ho, ma ne decanto persino la follia, l'ebbrezza. Non ho bisogno di parlare, ma devo vivere, celebrando la mia esistenza ai limiti della “linfomania.”